Articolo di Gianni Cardillo
Il 25 e 26 gennaio scorsi si è tenuta all’Hotel Excelsior di Roma la manifestazione “Vignaioli Naturali”, ideata e organizzata da Tiziana Gallo. Come ogni anno l’attesa ha ripagato gli appassionati che, sempre più numerosi, si sono affollati tra i banchi di oltre 90 produttori, i cui vini mostrano una qualità in costante e significativo aumento.
Partito da condivisibili esigenze etico/culturali, in pochi anni il movimento del vino naturale è riuscito a indirizzare e modificare il gusto del pubblico – almeno di quello più attento e informato. Anche le scelte di molti ristoratori ne sono state influenzate, infatti ormai non possono più fare a meno di avere in carta almeno qualche produttore ‘naturale’ se vogliono essere à la page.
Ecco, forse proprio il successo del movimento è alla base del pericolo che più lo assedia: il mainstream.
Questa minaccia si manifesta in vari modi.
Uno è la tentazione del diventare piacioni, seguendo o cercando di dettare mode quali – giusto per fare un paio di esempi – l’uso (e abuso) delle anfore e la proliferazione dei rifermentati in bottiglia. Anche il famolo strano, ossia la sperimentazione a tutti i costi, fa parte di questo pericolo. Per esempio mi è capitato di assaggiare un metodo classico, a base Trebbiano e Malvasia, fatto con uve affumicate. “Ci siamo divertiti ad affumicare le uve e vedere cosa usciva fuori”, dice il produttore. Ne è scaturito un vino indubbiamente molto particolare, che investe con forti sentori di affumicatura (sembra una scamorza) e che lascia quantomeno perplessi.
Altro rischio è dato dal far passare qualunque difetto come parte della supposta naturalità del vino: forti riduzioni, sentori organici, volatile penetrante… In questo modo si rischia di allontanare i consumatori, e prestare il fianco all’identificazione dei vini naturali con “i vini che puzzano”. La spontaneità a tutti i costi non può voler dire sperare che le imperfezioni più o meno gravi si sistemino in bottiglia. Ridurre l’anidride solforosa – giusto per fare un esempio – e portarla quasi a zero, senza che il vino abbia poi difetti, significa rendere molto più accurati il lavoro in vigna e la selezione delle uve.
Insomma, col passare degli anni l’entusiasmo per i vini naturali aumenta insieme al rischio, da parte di alcuni produttori, di voler inseguire il mainstream nel suo significato più deleterio e mortifero per il movimento.
Infatti oggi anche molte aziende convenzionali provano a cavalcare l’onda, realizzando prodotti che definiscono ‘naturali’. Hanno fiutato l’affare. Del resto anche nell’industria alimentare e nella grande distribuzione il biologico – e tutto ciò che richiama il salutismo in generale – sta diventando un must. Siamo invasi da annunci come “senza olio di palma”, “senza zucchero”, “senza glutine”… Certo, in alcuni casi è un bene per la nostra salute, ma a volte non ci rendiamo conto che il “senza qualcosa” prevede la presenza di qualcos’altro, che potrebbe essere anche più dannoso.
Ecco perché i vignaioli naturali devono lottare per affermare la propria identità e la propria specificità, senza farsi fagocitare da questo tipo di mainstream, che confligge coi principi e l’essenza stessa del movimento. In questo senso andrebbe forse preso ad esempio quel modo nobile di essere mainstream appartenente a vini che erano naturali ancor prima che esistesse questa definizione, e che hanno aperto la strada senza scalfire la propria identità, anzi consolidandola: da Romanèe–Conti a Soldera passando per Rinaldi, Gravner, Pepe, Valentini, Dettori… Vini che pongono al centro l’artigianalità, la salvaguardia dell’ambiente e della salute del consumatore, il rifiuto della chimica, l’esaltazione della biodiversità grazie al recupero di uvaggi trascurati o abbandonati. E la riscoperta della sensorialità del consumatore, spesso anestetizzata dalla mediocrità e dalla serialità produttiva anche se marchiata ‘bio’.
Secondo Roland Barthes è “sterile ricondurre l’opera a qualcosa di puramente esplicito, perché allora non c’è più nulla da dirne e perché la funzione dell’opera non può consistere nel chiudere le labbra di coloro che la leggono”. Ecco, lo stesso principio può essere applicato al vino. Un vino che concede tutti i suoi sapori al primo sorso, che dispiega tutti i suoi profumi immediatamente, è un vino che non ha nulla da dire. Il buon vino invece produce un incontro con il suo consumatore. E l’incontro è stupore, esplorazione, apertura di possibilità, propensione a essere spiazzati dalla soggettività dell’altro (del vino che si evolve nel calice, per esempio), di costruire uno spazio e danzare in esso. Danzare coi sensi.
Di vini con siffatte caratteristiche ne ho incontrati parecchi durante questa intensa due giorni all’Excelsior. Ne racconto alcuni che mi hanno particolarmente affascinato, e i cui produttori mi hanno colpito per l’elevata qualità non solo del singolo vino ma dell’insieme della loro produzione.
Siamo nel Carso, zona dei ‘vini di pietra’. Questa eccellente malvasia ne riassume la filosofia. Ricco e dinamico, identitario e di carattere, interpreta il territorio in maniera impeccabile. Gli aromi sono intensi e complessi, spaziano dalle erbe aromatiche della macchia mediterranea alla frutta gialla, dal miele alla salinità marina. Al palato ha un finale persistente, fresco e sapido.
Jakot 2013, Franco Terpin
Tra gli appassionati il nome di Terpin ha un’importanza enorme. All’assaggio, i suoi vini sensuali lasciano stupefatti sia degustatori esperti che neofiti. Ogni bottiglia è un’opera d’arte. Questo Jakot, ottenuto da uve in purezza di Friulano, non è da meno. Albicocca matura, frutta candita, resina, miele di castagno, spezie orientali, e mandorle su un finale che lascia in bocca la sensazione di una sinfonia perfettamente eseguita.
Barolo Bussia, 2016 – Fenocchio
Una delle espressioni più autentiche del Barolo di Monforte d’Alba. Ha un profumo intenso con note floreali di rosa, liquirizia e, sul finale, spezie e tabacco. È un vino corposo, caldo, armonico, persistente, dal gusto pieno e con un’elegante struttura tannica.
Ultimi raggi, Riserva Sassella, Valtellina Superiore 2013 – Ar.Pe.Pe.
Nebbiolo cesellato dal sole e dalla brina, complesso, morbido, intenso e di buon nerbo. Alle note di fragola e lampone si uniscono marasca, ciliegia, mirtillo, cannella, cardamomo, liquirizia, anice. Ha una mineralità e una freschezza di rara finezza e un tannino molto elegante. Molto lungo e persistente. Emozionante. Un’azienda i cui vini sono sempre una garanzia.
N° 73 Perpetuo – VITEADOVEST
Grillo e catarratto da vigne vecchie, affina in contenitori di legno di varie misure, base di vino del 1973 rinnovata ogni anno con vino nuovo finito non in fermentazione. In pratica è un grande Marsala Vergine, con sentori di fichi, mandorle, noci, uva passa e la salsedine che ricorda la brezza di mare delle serate estive marsalesi spazzate dallo scirocco. In bocca è fresco e secco, lunghissimo.
Orange, Zibibbo Secco 2018 – Abbazia San Giorgio
C’è tutto il Mediterraneo dentro questo vino, al tempo stesso barocco e rigoroso. È un caleidoscopio vibrante di profumi, fresco, solare, sapido, potente e anche delicato. Albicocche, bucce d’arancia, miele, noci, fiori di mandorla, sapidità marina e mineralità vulcanica. Finale lungo e appassionante, capace di stupire nella sua evoluzione sia nel calice che in bocca.
‘Colle Fregiara’, Trebbiano Spoletino 2017 – Annesanti
Affinato in anfora, è un vino molto complesso e avvolgente. Al naso è intenso e molto articolato, con profumi floreali, di agrumi, mandorla verde, spezie e con note affumicate e minerali. Ricco, armonioso e persistente.
Vitovska ‘Kamen’, 2017 – Zidarich
Vinificato in vasca di pietra carsica con macerazione prolungata. Anche Zidarich è un nome che ha un certo peso tra gli appassionati, e nessuno dei suoi vini tradisce questa fama. La vitovska è complessa al naso, ha profumi di frutta tropicale matura, ginestra, erbe officinali, note speziate e minerali. Al palato risulta avvolgente, morbido ed equilibrato, emergono la classica sapidità carsica e l’ottima freschezza (quasi tagliente). Molto persistente.
Cesanese ‘Cirsium’, 2016 – Damiano Ciolli
Questo vino è, a mio avviso, una delle massime espressioni di Cesanese. Colpisce subito per la sua complessità, con profumi che vanno dalla ciliegia matura alla liquirizia, dal tabacco al pepe nero, dal cuoio ai fiori appassiti e ai chiodi di garofano. In bocca è molto ricco, corposo e intenso, elegante e morbido, con un tannino raffinato e un finale di notevole lunghezza.
Due giorni non possono bastare a godere di tutti i vini in assaggio, i produttori da menzionare sarebbero ancora molti. Un’ultima nota la voglio dedicare ad alcuni piemontesi di grande spessore ed eleganza come il Bramaterra di Antoniotti, il Barbaresco Rabajà di Castello di Verduno, il Barolo Castellero dei Fratelli Barale; gli imperdibili, e ormai dalla fama consolidata, Giuseppe Rinaldi, Cavallotto, Principiano, Borgogno. La bella sorpresa del ruspante catarratto Praruar de Il Censo e dei prodotti dell’azienda Le Filarole. La conferma della qualità produttiva di Andrea Occhipinti, Palazzo Tronconi, Ampeleja, Vittorio Graziano.
Per concludere, come non concedere due righe alla raffinata eleganza dei vini di De Bartoli… su tutti l’elegantissimo Zibibbo, l’indimenticabile passito di Pantelleria Bukkuram e sua maestà il Vecchio Samperi.
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