I Vitigni Autoctoni Italiani visti da diversi giovani imprenditori vinicoli.

Durante il Workshop Agivi che si è tenuto il 7 dicembre a Verona durante il Wine2Wine, 4 giovani imprenditori Vinicoli hanno hanno evidenziato, attraverso la loro esperienza personale, i punti di forza e le opportunità, così come i limiti e le problematiche, legate alla produzione, commercializzazione e comunicazione dei Vitigni autoctoni italiani. Dal Titolo “GIOVANI, AUTOCTONI, ITALIANI: ISTRUZIONI PER L’USO E STRATEGIE PER IL FUTURO.”, questo seminario, presentato da Carlotta Pasqua, è stato un viaggio attraverso l’Italia per conoscere 4 diversi casi aziendali, dal Piemonte alla Puglia, dalle Marche alla Sardegna. Ognuno di loro ha un modo diverso di vivere e percepire l’esperienza dei vitigni autoctoni.

 

LUCA FERRARIS – FERRARIS AGRICOLA

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Un giovane imprenditore, che ha dato vita lui stesso alla Cantina Ferraris in Castagnole Monferrato vicino Asti. In 15 anni di esperienza, ha puntato la sua attività su un vitigno particolare, il Ruchè ed è diventato in poco tempo leader della produzione di questo segmento nel suo territorio.

La sua storia parte dalla città di Torino per rientrare poi nelle campagne piemontesi legate ai nonni, un sogno che diventa realtà: riprendere i vigneti del nonno e ristrutturarli. Dopo 20 anni di abbandono, decise nel 2001 di riprenderli in mano e cominciarne la produzione. La sua carriera si confrontò subito con un personaggio chiave che ha avuto un ruolo fondamentale sia nella sua carriera sia nel mondo del Ruchè stesso. Racconta Luca “Proprio nei corridoi del Vinitaly incontrai nel 2002 Randall Gram che è uno dei maggiori produttori vinicoli americani, ma soprattuto è anche uno dei migliori comunicatori di vini particolari al mondo.” Randall si innamorò del Ruchè al primo sorso e decise di investire in questo prodotto, inserendolo nel progetto che stava portando avanti negli Usa, chiamato Euro Dune, con il quale importava negli stati uniti vitigni autoctoni e pressoché sconosciuti dalla Francia e dall’Italia. È stata la svolta per la cantina di Ferraris che grazie a questa collaborazione ha potuto ampliare il suo progetto, migliorando cantina e vigneti, cosa non scontata per un giovane ragazzo, figlio di impiegati, con contenute disponibilità economiche alle spalle. La parnership è durata fino al 2006 ed ha aperto le porte a Ruchè nel mondo e alla commercializzazione.

Altra figura fondamentale che ha contribuito allo sviluppo di questo vitigno è stata la figura del Parroco Don Giacomo negli anni 60 riuscì a valorizzare le caratteristiche di questo vitigno che fondamentalmente si trovava sparso nei vigneti di Barbera e Grignolino. Ma aveva caratteristiche aromatiche talmente particolari da rappresentare un problema nel taglio di queste due denominazioni. Don Giacomo decise quindi di isolarlo piantando nel 1967 il primo vigneto di solo Ruché e vinificandolo in purezza, riuscendo ad esaltare le caratteristiche aromatiche di questo vino.

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Il Ruchè è un uva a bacca rossa, aromatica, si trova e si coltiva solo in una ristretta area del Nord Est Astigiano a Castagnole Monferrato e 6 comuni limitrofi.

Nel 2000 contava circa 20 ettari mentre oggi sono 150 per una produzione di 800.000 bottiglie.

La caratteristica principale è l’unicità con fragranze e aromi olfattivi difficilmente riscontrabili in altri vitigni. Si è fatto strada grazie a un gruppo di produttori che hanno creduto e investito in questo vino, proprio come Luca Ferraris.

E questo ha prodotto anche un riscatto del suo territorio. Quell’area aveva infatti subito un grosso abbandono, prodotto in larga parte dalla Fiat, che aveva provocato villaggi quasi fantasma. Lo sviluppo di questa zona dal punto di vista vinicola, ha ripopolato l’area, facendo ritornare i giovani, e anche numerosi investimenti e capitali.

Per comprendere meglio la rivalutazione della zona – sottolinea Luca – basta pensare che quando ho cominciato, 1 ettaro di vigneto valeva 10.000€ mentre oggi siamo introno ai 75.000 €.” C’è stato anche l’arrivo di numerosi stranieri, soprattutto Nord Europei, innamorati dei paesaggi molto caratteristici disegnati dalla mano degli agricoltori. Il Ruchè ha riportato dignità e redditività alle aziende agricole oltre che nuovi posti di lavoro, sviluppando tutto il comparto del turismo e dell’enogastronomia. Si sono sviluppati una serie di strutture di accoglienza che sono sempre piene e in sviluppo.

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La Ferraris lo scorso anno è riuscita a sviluppare un progetto importante ossia acquisire la Vigna del Parroco, che è appunto il 1° vigneto impiantato a Ruchè da Don Giacomo, e che ha un patrimonio genetico di questo vitigno senza uguali come biodiversità genetica, dato che ormai si sviluppa a partire da soli due principali cloni selezionati.

Ferraris ha quindi a disposizione questa intera biodiversità per poter fare selezioni massali, e impiantare futuri cloni, cosi come la responsabilità di mantenere questa biodiversità lasciata in eredità dal parroco di Castagnole.

Nell’esperienza di Luca la scelta verso il Vitigno autoctono è quella più giusta per salvaguardare le proprie aziende, puntare sui vitigni autoctoni è l’unica via di uscita per distinguersi nel mondo della globalizzazione.

 

MARZIA VARVAGLIONE – VARVAGLIONE VINI E CANTINA

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Marzia è la quarta generazione di un’azienda Storica pugliese che si trova a Taranto e che risale al 1921. Collabora con il padre, molto giovane anche lui, e hanno entrambi una visione molto dinamica e moderna del mondo del vino, molto propensa all’innovazione.

L’azienda si trova in Puglia, una penisola bagnata sui tre lati dal mare, che gioca un ruolo fondamentale sui vitigni e sull’agricoltura della regione.

Marzia ci parla del suo amato Primitivo “è un vitigno territoriale, storico ma anche molto chiacchierato, le cui origini sono spesso associate allo Zinfandel e si dicono provenienti da uno stesso clone croato. Il Primitivo, secondo una ricerca dell’UIV è uno dei 10 vitigni più piantati d’Italia e tra il 2014 e il 2015 c’è stato un incremento di 5.000 ettari, ossia del 46,6%. La vendemmia 2015 ha prodotto circa 18 milioni di litri di Primitivo di Manduria, nel 2016, 20 milioni di litri ossia circa 25 milioni di bottiglie. I paesi principali dove questo vino è venduto sono gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone e i paesi del nord Europa e una piccola parte in Cina.”

Una delle particolarità del Primitivo è che ha vari tipi di coltivazione, tra cui l’Alberello, ossia il metodo più tradizionale, che crea però problemi di raccolta perché può essere fatta solo manualmente. SI adotta quindi ora più spesso il cordone speronato che permette di ottenere ottimi risultati e dove è possibile eseguire la vendemmia anche meccanica. Si utilizza anche il Guyot, specialmente per il Primitivo IGP, che aumenta la resa per ettaro.

Altra caratteristica della puglia sono i vari tipi di terreno, da una parte c’è la terra rossa, ricca di sali ferrosi, minerali, tipica del Primitivo di Manduria Dop, che insieme al terreno più sabbioso, sono gli habitat più naturali del Primitivo, in quanto creano uno stress idrico permettendogli di giungere a maturazione prima degli altri vitigni, e da qui il nome di Primitivo.

Marzia ha presentato una Swot analysis, Analisi di forza e debolezza del vitigno Primitivo nel mondo.

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Forza: primitivo è un vitigno molto corposo, con alti residui zuccherini, quindi di facile approccio, sia per i nuovi palati, sia per i nuovi mercati.

Debolezza: vitigno nuovo che deve ancora farsi conoscere e trovare il suo spazio rispetto a vitigni più conosciuti e blasonati. Ma questo in realtà può rappresentare anche una bella sfida in quanto sono mercati tutti nuovi da creare e dove poter crescere.

Minaccia: poca stabilità del prezzo.

Da questa analisi, la Cantina Varvaglione ha creato la sua strada e la sua unicità. In primis hanno puntato sul reinnovare il taglio del primitivo, creando un vino più approcciabile, con una gradazione più contenuta, limitata a 12.5. Hanno deciso di puntare su questa caratteristica distintiva del loro primitivo, utilizzandola come elemento centrale per la creazione del nome e del packaging del loro prodotto. Comunicando da fuori cosa c’è all’interno.

In seguito hanno voluto giocare sull’integrazione orizzontale, ossia da li sono partiti con una serie di prodotti autoctoni che girassero intorno a questo principio, rendendolo identificativo del marchio in generale. La gamma si è quindi arricchita con il Negroamaro, la Malvasia del Salento e il Rosato di Negroamaro, oltre a due prodotti aggiuntivi che si differenziano perché puntano sul biologico, anche qui rendendo il packaging molto comunicativo.

Si sono spinti oltre, costruendo un vero e proprio brand intorno al nome 12 e mezzo, e lo hanno fatto assegnando a ognuno dei vini un carattere differente, una veste che lo contraddistingue pur riportando fortemente a un identità aziendale molto forte e immediatamente riconoscibile sia come brand sia come territorio grazie al fatto che tutti i prodotti che sviluppa sono esclusivamente autoctoni.

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Hanno giocato anche con il coinvolgimento dei 5 sensi, infatti sono etichette sicuramente impattanti alla vista, per l’udito preferendo il tappo tradizionale che crea rumore nello stapparlo rispetto allo stelvin, al tatto ogni etichetta ricorda un tessuto, e per gusto e olfatto ovviamente parla il vino.

 

GIANLUCA GAROFOLI – CANTINA GAROFOLI

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Gianluca rappresenta la 5° generazione di un marchio con più di 100 anni di storia.

Un’azienda con lunga tradizione alle spalle e per molto tempo identificata a un vitigno autoctono, il Verdicchio.

La Cantina, fondata ufficialmente nel 1901, si sviluppa in uno snodo fondamentale per il passaggio verso la Basilica di Loreto. Si trovano nelle zone di produzione del Verdicchio dei castelli di Jesi e del Rosso Conero. Sicuramente il focus maggiore è andato verso il verdicchio, e negli anni 50 la cantina ha galoppato il boom del Verdicchio, iniziando importanti esportazioni verso l’estero, consolidando la sua identità e incrementando la sua struttura produttiva.

Il Verdicchio è presente in due sole DOC, Jesi con 2150 ha e Matelica con 210 ha, entrambe nelle Marche, 160.000 ettolitri prodotti nell’anno 2015 e 18.500.000 bt divise tra circa 110 produttori. Sono zone meravigliose, contornate da una parte dagli appennini, dall’altra dal mare, e disseminata di moltissimi paesini bellissimi. È anche una zona molto vocata, con l’influenza del mare e le differenze di altitudini, che spaziano dai 100 mslm ai 600 mslm e terreni calcarei con contenuti di argilla.

Vino che per il 47% viene distribuito all’estero, principalmente in Usa (22%), Nord Europa (20%), Uk (8%) e in Asia (6%).

Il Verdicchio era uno dei vini bianchi più venduti d’Italia. Grandissima popolarità dagli anni 50 agli anni 90 come vino quotidiano. Poi ha avuto una grande sofferenza. Il consumatore gli volta le spalle per svariati motivi che portano un’importante decrescita. Poi c’è stata un grande riposizionamento che lo ha fatto ritornare in auge, fino a diventare negli ultimi anni il vino bianco più premiato d’Italia.

Visto l’andamento non sempre positivo riscontrato dal vitigno, Gianluca sottolinea che “I Vitigni autoctoni sono da “utilizzare con cautela” .

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In italia siamo ricchissimi di vitigni autoctoni, rappresentano il nostro passato, il presente e il futuro. Indiscutibilmente la via giusta è quella di puntare sulla nostra ricchezza e varietà territoriale, sulla nostra unicità. Vantaggio dell’unicità che crea potenzialità di mercato in Italia così come all’Estero, crea curiosità, originalità, mark-up grazie alla relativamente scarsa disponibilità.

Esistono però degli svantaggi legati a fattori del mercato, possono esserci dei momenti di stanchezza verso quel prodotto e quindi un legame troppo forte rischia di creare problemi all’azienda stessa.

Problema anche dei pregiudizi – spiega Gianluca – ossia per esempio su un vino di tradizione come il Verdicchio c’è la convinzione di molti che sia un vino da bere giovane e poco impegnativo ed è difficile cambiargli questa percezione nonostante i numerosi sforzi a dimostrare altre potenzialità. Lo stigmatizzano. Creano categorie di percezione.”

Le sue conclusioni sono quindi che legarsi completamente a un vitigno come immagine aziendale può essere pericoloso quindi “sicuramente autoctono, ma sicuramente stabilendo una solida politica di marchio che permette di rimanere sul mercato anche quando il vitigno può non godere della giusta popolarità e sviluppando un’ampia gamma commerciale, sempre basata sugli autoctoni, ma che soddisfi varie fette di mercato e risponda alle diverse esigenze del consumatore.”

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Garofoli si è infatti specializzata anche nella spumantizzazione del Verdicchio, nei primi anni 70, quando ancora veniva considerato solo un vino giovane e fermo, creando da un lato la sua originalità e dall’altra ampliando la gamma, la penetrazione commerciale e lo sviluppo di marchio abbinato al vitigno autoctono.

L’Autoctono non deve rappresentare la sola e unica bandiera per un’azienda perché nell’arco di 100 anni può succedere che possa avere dei momenti di stanchezza commerciale e questo rischierebbe di mettere a rischio l’azienda stessa.” Spiega Gianluca, sottolineando l’orgoglio di rappresentare e interpretare i vitigni che maggiormente caratterizzano il nostro territorio, ma evidenziando quanto anche il mondo del vino sia legato alle mode, e all’altalenante gusto del consumatore. Per un ragionamento a lungo termine, non bisogna mai perdere di vista quindi la propria identità e affermazione anche come Brand, per riuscire ad affrontare e superare momenti di difficoltà, come hanno fatto loro negli anni 80/90, in cui i vitigni internazionali avevano la meglio o mercati nei quali il tuo vitigno non ha il giusto appeal.

 

FRANCESCA ARGIOLAS – CANTINA ARGIOLAS

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Siamo vicino Cagliari, e Francesca rappresenta la 3° generazione dell’azienda Argiolas, un grande punto di riferimento della produzione vinicola sarda. È una cantina che ha sempre puntato fortemente sugli autoctoni ma è riuscita ad unire l’esperienza e la ricerca sugli autoctoni al lavoro sul marchio.

“Produciamo vino in tutto il mondo con una varietà incredibile, e spesso lo stesso vitigno riesce ad esprimersi in modi meravigliosi e convincenti in più parti e in diverse sfumature. – precisa Francesca – Tutti i viticultori che hanno sempre investito in Italia sui vitigni del terriroio, facendo grandi sacrifici, spesso anche come visionari e lungimiranti, oggi sono i veri garanti di un patrimonio che senno altrimenti avremmo perso.” Lavoro difficile che ha permesso di salvaguardare e a volte recuperare un patrimonio genetico che ci da oggi una ricchezza enorme. Proprio questa è la scelta fatta da sempre dall’Argiolas sin dall’inizio avvenuto mezzo secolo fa con il nonno di Francesca. Quando arrivò la 2°generazione ci fu un passaggio decisivo perché il padre e lo zio di Francesca intorno agli anni 80, fecero uno sforzo importante per investire nel marchio aziendale, puntando al tempo stesso sui vitigni autoctoni che rappresentavano realmente la loro terra ma che erano a quel tempo alquanto sconosciuti. Chiamarono una persona che ha lasciato un segno importante nella loro storia, Giacomo Tachis, che condivideva con loro la scelta di puntare sugli autoctoni. E che gli ha insegnato la capacità di osservare sempre i cambiamenti, sia della natura, sia del mercato. Diventa così fondamentale studiare, fare ricerca, imparare ad affrontare la natura che evolve, come ad esempio le condizioni climatiche, così come recuperare cloni che altrimenti sarebbero andati perduti. Anche perché ricorda Francesca “per un periodo sono stati scartati i cloni che producevano meno a favore di quelli che davano più produzione. Il nostro lavoro è stato quello di recuperare quelli che potevano garantire migliore qualità e biodiversità. Come il recupero del vitigno di bovale sardo chiamato anche ulisrellu , che non veniva più impiantato perche aveva grappoli molto piccoli e bassissima resa per ettaro e era caduto in disuso.” Bisogna comunque sempre tenere presente di essere in primis imprenditori quindi fare scelte che siano anche ponderate e strategiche realizzando un prodotto che venga poi apprezzato e acquistato dal mercato. Uno degli ultimi progetti portato avanti da Argiolas, da una decina di anni è quello del campus sperimentale in collaborazione con l’università di Sassari, con la ricerca dopo una prima selezione massale, di tutti i vitigni presenti in Sardegna. Tutte le diverse sfumature presenti ritrovate sono impiantate all’interno di questo vigneto sperimentale che ad oggi vanta circa 500 cloni sardi differenti, 500 biotipi recuperati e salvati. Da li stanno cercando di creare un patrimonio salvaguardato di biodiversità e la valorizzazione dei vitigni autoctoni. Francesca ribadisce che Bisogna lavorare sulla tradizione ma senza immobilismo, lavorare sul territorio in maniera innovativa e dinamica, cercando di essere anche critici nei confronti del lavoro che si fa. Bisogna sapersi rimettere in discussione e capire il mercato che sta cambiando così come le prospettive ambientali”

Cita l’esempio del Nasco di Cagliari, che nasce come vitigno predisposto per i vini da dessert. Mai nessuno aveva pensato di lavorarlo in maniera diversa. Argiolas è partita dalla vigna, valutando tutte le dinamiche e le caratteristiche del terreno e dell’evoluzione del vitigno stesso. Ci hanno messo circa 7 anni prima di riuscire a trovare la dimensione più adatta di questo vitigno per lo sviluppo della versione secca. Quando ci sono riusciti si sono ritrovati con il limite del disciplinare che non ne consentiva la dicitura in etichetta per la versione secca. Ma non si sono arresi neanche li, riuscendo a far cambiare il disciplinare e anche la mentalità del consumatore che si approccia ora finalmente anche a questa nuova versione del vitigno. Tutto questo a dimostrazione quanto sia utile investire nella ricerca per partire dall’unicità del nostro territorio e rivederla in chiave aggiornata e moderna per crearne una propria peculiarità. Conclude cosi Francesca Argiolas Dobbiamo essere garanti delle nostre tradizioni ma dobbiamo farlo con audacia e con coraggio. E grande sacrificio. Chi fa questo lavoro si trova tutti i giorni difronte a scelte difficili.

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CONCLUSIONE

Emerge che l’investire sul vitigno autoctono significa valorizzare e investire nel territorio e valorizzare il nostro patrimonio di biodiversità. Questo però funzione se accompagnato da altri fattori. Non puntare solo sul vitigno ma lavorare sul proprio brand, sulla propria unicità. Far percepire i propri valori e le esperienze. Sicuramente positivo quindi partire dal valorizzare i nostri vitigni e il nostro terroir, ma diventa fondamentale far emergere e raccontare il proprio carattere e la propria filosofia, mettersi in gioco, creare emozioni, e distinguersi.

 

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